Monday, October 24, 2016

Ucraina, la frontiera contesa

ROBERTO TRAVAN
KIEV (UCRAINA)

Reportage dal Donbass in guerra contro l’occupazione filorussa


«É possibile sconfiggere un esercito, non un popolo. Per questo motivo la Russia non potrà mai batterci». Armen è certo che l’Ucraina si riprenderà Donetsk e Lugansk, città conquistate due anni fa dai separatisti filorussi. E forse anche la Crimea occupata dagli indipendentisti con l’appoggio militare di Mosca. 


Perché la Guerra del Donbass - fino ad ora costata diecimila morti e quasi due milioni di sfollati - non è finita, ma continua - silenziosa e ignorata - a mietere vittime, da una parte e dall’altra. Il conflitto è scoppiato all’indomani dalla rivoluzione che a Kiev spodestò nel 2014 il presidente Viktor Yanukovich, accusato di essere troppo vicino a Putin e lontano dal sogno europeo degli ucraini. Nella rivolta un centinaio di manifestanti venne ucciso dai cecchini, ma alla fine vinse Maidan - la piazza -, la voglia di avvicinarsi all’Europa e prendere il largo dalla Russia. 

Armen non è un volontario. «Sono un patriota» afferma, anche se le origini della sua famiglia sono armene. Con il figlio raccoglie aiuti da inviare nel Donbass. Il suo magazzino, a Yahotyn, centocinquanta chilometri a est da Kiev, è una tappa obbligata per i convogli diretti al fronte. «In media ne passano centoventi al mese» spiega. 

Partono dalla capitale carichi fino all’inverosimile. «Portiamo viveri, medicinali, vestiario» racconta Natalia Prilutskaya, due figli, il cognato caduto in combattimento all’inizio del conflitto. Gli aiuti arrivano da tutto il mondo grazie alla catena di solidarietà che parte dal Canada e attraversa la Germania, la Spagna, la Francia. Anche l’Italia, dove vive una numerosa comunità di ucraini. «Questa volta abbiamo raccolto confezioni di antidolorifici e coperte per l’inverno» spiega il torinese Mauro Voerzio, responsabile dell’edizione italiana di Stopfake.org, sito Internet che si occupa di smascherare la propaganda russa contro l’Ucraina.

I pacchi giungono a Kiev alla spicciolata, vengono smistati dai volontari sulle «maršrutke», furgoncini che percorreranno quasi mille chilometri per giungere a destinazione. In prima linea c’è bisogno di qualsiasi cosa. Yuri Moskalenko sul suo Volkswagen ha caricato barattoli di «salo» (grasso di maiale salato molto nutriente, buono, dicono, anche per ingrassare i cingoli) e casse piene di silenziatori per kalashnikov. Li ha fabbricati nella sua piccola officina: «Sono pezzi di precisione: attutiscono il rumore e riducono la fiammata dei mitragliatori». Al suo fianco, a dargli il cambio alla guida, c’è Yulia Zubrova con la sua inseparabile chitarra. Yulia ha scritto canti patriottici che intona ovunque: nelle trincee fangose, negli scantinati trasformati in rifugi, negli ospedali tra i feriti, strappando applausi e buon umore.

Il convoglio viaggia ininterrottamente per undici ore. Poi compaiono i posti di blocco che segnano l’ingresso nella zona Ato, il Donbass tenuto sotto scacco dai terroristi. I mezzi rallentano, si aprono i finestrini: «Slava Ucraina!», «Gloria all’Ucraina!» scandiscono gli autisti. Le canne dei mitra si abbassano, sui visi dei soldati sfatti dalla stanchezza compare un sorriso. «Gheroyam slava!»: «Gloria agli eroi!» rispondono facendo cenno di proseguire. Si riparte veloci schivando le buche delle esplosioni, carcasse d’auto arrugginite, le schegge taglienti degli shrapnel abbandonate sull’asfalto. Si teme di finire fuori strada, sulle mine disseminate nei campi abbandonati che si perdono all’orizzonte. A Lughanska cibo e medicine sono distribuiti al 93° battaglione. I soldati vivono nell’interno, buio e annerito, di un capannone sventrato da un razzo Grad. Usano specchi per non farsi sorprendere alle spalle.

Sulle alture vicine a Stachanov, di fronte a Debaltseve - città strappata lo scorso anno agli ucraini nella battaglia che costò la vita a quasi duemila uomini - gli aiuti vengono trasbordati su un cingolato. Il mezzo attraversa villaggi abbandonati, le case trasformate in ricoveri per riprendersi dalla fatica della prima linea. C’è fango ovunque, anche nei bivacchi appena intiepiditi dalle stufe. I militari consolidano le posizioni, scavano nuove trincee, spaccano legna perché la neve, il freddo e i nemici premono, sono alle porte. Bastion è l’ultimo caposaldo ucraino sull’autostrada alle porte di Donetsk. Si dorme in mezzo ai topi e all’umidità nei rifugi scavati tra i resti di un cavalcavia sbrecciato dalle esplosioni. L’aeroporto, distante poche centinaia di metri, di notte è rischiarato dalle fotoelettriche e dal bagliore intermittente dell’artiglieria: i colpi rimbombano fino all’alba, il paesaggio è surreale.

La guerra alla periferia di Donetsk va avanti ininterrottamente da oltre due anni. A nulla sono valsi gli accordi di Minsk per il cessate il fuoco, perché i mortai non hanno mai cessato di sparare. Lo confermano gli osservatori Osce quotidianamente impegnati a contare esplosioni, intuire calibri, registrare morti e feriti. Una contabilità per difetto, ovviamente, perché difficile da completare.

A Shakta Butovka il conflitto si respira tra le lamiere contorte e arrugginite della centrale elettrica: è odore acre di plastica bruciata e nafta quello che ristagna tra le macerie. I soldati vivono incollati alle pareti in cemento ancora in piedi, come cimici in cerca di salvezza. Qui combatte Igor, giovane volontario che ha lasciato la famiglia a San Pietroburgo per arruolarsi con Kiev. 

«La Russia ha aggredito un Paese fratello: non avevo altra scelta, mi sono schierato al fianco dell’Ucraina» spiega. Non è l’unico russo ad aver fatto questo passo. «Siamo in molti: la guerra sarà lunga – aggiunge - perché è stato un errore accordarsi con i terroristi».

C’è anche Vidadi Israfilov. Lui però è azero e, ironia della sorte, ringrazia gli aiuti ricevuti da Armen, patriota originario dell’Armenia, nazione da venticinque anni in guerra con l’Azerbaigian per il possesso del Nagorno-Karabakh. «Tra noi non esiste alcuna differenza di partito, ideologia o credo religioso – sostiene Marina Danilova, animatrice del gruppo «Pomaigitie Armja», «Aiutiamo l’esercito» – perché tutti difendiamo il nostro Paese, fianco a fianco, uniti, senza alcuna distinzione, militari e civili. Ognuno dà quello che può: questo è lo spirito di Maidan». I filorussi continuano ad accusare l’Ucraina di essere nazista. E puntano il dito contro i battaglioni Azov e Pravj Sektor, che usano simboli simili alla svastica germanica e simpatizzano apertamente per l’estrema destra. Come molti separatisti, del resto, e tra loro anche alcuni mercenari italiani. 

Ad Avdiivka, i colpi di artiglieria hanno sventrato alcuni palazzi in periferia. I calibri dei separatisti hanno però risparmiato il complesso industriale nella parte occidentale della città. Nessun errore, nessun miracolo: appartiene a un oligarca che vive nella Repubblica di Donetsk. La scuola numero Sette, invece, è oltre l’ultimo checkpoint della cittadina. C’è il sole, ma le aule esposte ad Est, verso il fronte, sono buie perché alle finestre sono state inchiodate spesse assi di legno e sui davanzali sono stati appoggiati sacchi di sabbia. Proteggono allievi e insegnanti dai combattimenti che infuriano a poche centinaia di metri, in pieno giorno. «Non è facile ma è doveroso riconquistare un po’ di normalità» sostiene Kostyantyn Byalik. C’è voglia, insomma, di scrollarsi di dosso una guerra che ha fiaccato gli animi, corroso le speranze, messo in ginocchio l’economia. La sua città, Slovyansk, un anno fa era cupa come il ricordo - e i lutti - dei tre mesi di occupazione filorussa. Oggi nella piazza principale non troneggia più la gigantesca statua brunita di Lenin: è stata abbattuta per celebrare la riconquista della cittadina. Sventolano, ovunque, le bandiere giallo-blu dell’Ucraina, e nuovi locali ravvivano il centro. 

Sopravvivono, invece, le lunghe code ai bancomat che distribuiscono al massimo l’equivalente di quindici euro al giorno e restano a secco già a mezzogiorno: perché l’inflazione continua a correre, chi può fa incetta di contanti.

Il clima è diverso a Kurakhove, città ammorbata dalla centrale a carbone che nonostante il conflitto, continua indisturbata ad inquinare e fornire luce ai ribelli di Donetsk. Nelle vie non sventolano bandiere patriottiche: «I rapporti tra ucraini e russofoni sono difficili, le provocazioni continue» spiega Dmitry Katsapov. Ma gli affari vanno bene, qui passa il corridoio verso l’enclave occupata. Sono centinaia i filorussi che ogni giorno cercano di raggiungere Kurakhove. 

Perché nonostante gli aiuti inviati da Mosca, nei territori occupati manca tutto, la popolazione è costretta ad approvvigionarsi in Ucraina. Hanno ventiquattro ore a disposizione, spesso si accampano vicino ai posti di controllo per guadagnare tempo, i più fortunati dormono in macchina, gli altri all’aperto. Al ritorno camminano per chilometri trascinando pesanti borse colme di generi alimentari, medicine, vestiario, subendo le asfissianti perquisizioni della polizia. Povertà e disperazione che fanno decollare il mercato nero. «Anche il traffico di armi vendute agli ucraini in cambio di droga» sostiene Maxim Lyutyi, comandante del battaglione Sich. «Gli affari illegali sono in crescita perché la guerra ha sprofondato la popolazione nella povertà facendo trionfare la corruzione» confessa amareggiato il giovane ufficiale cosacco.  

A Marinka il nemico colpisce dalla periferia di Donetsk, che da questo sobborgo si vede a occhio nudo. Le difese ucraine sono affidate al battaglione Donbass. Non ama i giri di parole il comandante Vyacheslav Vlasenko: «Vi ammazzo se fotografate il mio ufficio». Poi indica il monitor che inquadra le postazioni avversarie. «Potremmo riprenderci la città in quattro giorni - biascica in russo – ma Kiev non si decide». In ballo c’è la vita di un milione e mezzo di abitanti: scudi umani, insomma, scelta comprensibile. I suoi uomini continuano a scavare ripari lungo il corso d’acqua che lambisce il villaggio. «Di notte i nemici lo attraversano, entrano silenziosi nei cortili, ci prendono alle spalle» raccontano i soldati. Il resto lo fanno i cecchini appostati sulle alture vicino alle miniere di carbone, i proiettili dei mortai, le mine. Su uno di quegli ordigni tre mesi fa è saltato Roman. 

Lavorava in Spagna quando la Patria lo ha richiamato sotto le armi. Avevano minacciato di arruolare il fratello - sposato e con due figli - se non si fosse presentato. Roman non si è tirato indietro, ma a luglio ha messo il piede su una mina, il suo corpo è stato devastato dall’esplosione. «Ha perso la vista, un braccio, le gambe, il futuro» racconta con compostezza Nadja, la madre, otto anni da badante in Italia per assicurare un avvenire ai figli, ora al capezzale di Roman nell’ospedale militare di Kiev. 

I volontari soccorrono anche la popolazione che continua a vivere nelle zone dei combattimenti. A Opytne abitano Baba Raya e il marito. La loro casa è stata centrata due volte dagli insorti, il tetto lo hanno rattoppato con lastre di amianto e lamiera. Però non vogliono saperne di scappare. «Questa è la nostra terra, il cuore della nostra famiglia, della nostra esistenza» spiegano. Natalia Prilutskaya - la volontaria partita da Kiev con il furgone carico di aiuti - passa ogni mese a trovare Baba Raja. Lascia viveri e medicinali. 

Ma torna a casa «con la forza che solo questa donna è in grado di donarmi» dice. Sorridono i due anziani, ringraziano, mostrano le stanze fredde e buie in cui sono ammassati coperte, viveri per l’inverno, legna da ardere, foto sbiadite appese alle pareti. 

A Zaytsevo lavorano i volontari di Asap Rescue. Assistono militari e civili nella «buffer zone» a pochi chilometri da Gorlivka, città occupata dai separatisti. Tutti i giorni raggiungono con i fuoristrada le case sparse nella «terra di nessuno». Distribuiscono medicine, prestano soccorso, se necessario muovono le ambulanze. Tra i medici c’è Alexandr Sokolov, fino allo scorso anno in prima linea con Pravji Sector, oggi medico volontario. C’è anche Masha Kushnir, 32 anni, da Kiev. «Il mio Paese è in difficoltà, ho scelto di lavorare per la mia gente, di sdebitarmi con le persone che si sono sacrificate a Maidan. La rivoluzione mi ha insegnato proprio questo: essere utile al mio Paese» racconta infilandosi elmetto e giubbotto antiproiettile. Perché nonostante il presidio medico sia segnalato con grandi croci rosse, i nemici non esitano a colpirlo. 

«É una sporca guerra che vinceremo», sibila Vasili Budjk imbracciando un Ak 47 nuovo di zecca con mirino laser e colpo in canna. Ex ufficiale dell’esercito, due anni fa è finito in un’imboscata, è stato catturato dai nemici. «Tre mesi di torture, le costole sfondate, ma non ho aperto bocca», ricorda mostrando sul telefonino l’immagine in cui giace ammanettato per terra, il viso tumefatto dalle botte. É stato fortunato, lo hanno rilasciato in cambio di un parigrado russo. Altri suoi compagni non ce l’hanno fatta, sono stati giustiziati. Budjk è diventato un eroe nazionale, vive a Slovyansk, è uno dei più stretti collaboratori del ministro della Difesa. Con i volontari dell’organizzazione Officer Corp Ukr si occupa dei prigionieri ancora nelle mani degli avversari. «Lavoriamo per liberarli, ma è un compito delicato, estenuante, sempre sul filo del rasoio», spiega. Non vuole saperne di svelare quanti sono i militari russi imprigionati in Ucraina: «Mosca è imbarazzata, ha chiesto il silenzio, metterei a rischio le trattative». Mostra però il quaderno in cui sono annotati i nomi di alcuni prigionieri ucraini. «Li riporteremo tutti a casa – mormora - nessuno sarà abbandonato: questa è Maidan». 


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