di Federigo Argentieri
La dinamica della strage somiglia in modo impressionante a quella
verificatasi a
Budapest il 25 ottobre 1956, nella piazza Kossuth: anche allora unità non identificate
spararono dai tetti e uccisero decine di persone
Budapest il 25 ottobre 1956, nella piazza Kossuth: anche allora unità non identificate
spararono dai tetti e uccisero decine di persone
Sessanta anni fa, nella notte del 25 febbraio 1956, il segretario del Partito comunista
dell’Unione sovietica, Nikita Krusciov, pronunciava forse il più sensazionale
discorso di tutto il 20° secolo, il cosiddetto rapporto segreto sui crimini di
Stalin: con tutti i suoi limiti, peraltro assai poco noti in Italia (è infatti
quasi impossibile trovarne il testo completo), si trattò indubbiamente di un
atto dirompente, che ebbe conseguenze storiche importanti e positive; basti ricordare
l’accelerazione data al cosiddetto disgelo, la liberazione di milioni di
prigionieri dal Gulag, l’impulso dato alla libertà di espressione, le speranze,
poi deluse, di una vita migliore che fece nascere in tutta l’Urss.
Il testo del rapporto non rimase segreto ma uscì dal paese: dapprima
in Polonia, poi in Occidente, dove fu pubblicato qualche mese dopo. La potente
delegittimazione che ne derivò per i regimi di tipo staliniano dei paesi
satelliti portò in autunno ad una svolta riformista in Polonia e alla
rivoluzione ungherese, che Krusciov, dopo molte esitazioni, decise di
schiacciare con i carri armati perché travalicava di molto i confini del
«ritorno a Lenin» che il rapporto segreto aveva auspicato.
Un altro anniversario importante di questi giorni è quello della sparatoria che, il 20
febbraio 2014, lasciò parecchie decine di morti sulla Maidan Nezalezhnosti di
Kiev, ponendo fine alla fase prevalentemente pacifica di quella che gli ucraini
chiamano giustamente la «rivoluzione della dignità» e dando inizio ad un
conflitto logorante e distruttivo con la Russia, la cui durata è imprevedibile.
Gli elementi che accomunano i due anniversari, oltre al fatto che Krusciov
era ucraino, sono diversi: entrambi gli eventi possono essere visti come
facenti parte dei cicli storici, espansivo e regressivo, della sindrome
imperiale russa e dei loro corrispettivi — riformista e autoritario — in
politica interna. C’è anche un altro fattore, forse meno importante in assoluto
ma rilevante dal punto di vista soprattutto italiano, che riguarda la ricezione
di quegli eventi e la propaganda intorno ad essi.
La dinamica della sparatoria del 20 febbraio a Maidan somiglia in modo
impressionante a quella verificatasi a Budapest il 25 ottobre 1956, nella
piazza Kossuth: anche allora unità non identificate, ma certo non appartenenti
alla folla dei dimostranti, spararono dai tetti e uccisero decine di persone,
il che contribuì a trasformare un fermento fino ad allora prevalentemente
pacifico in una sollevazione armata di massa. Identico è anche il linguaggio
del Cremlino in proposito, cosa che fa una certa impressione a distanza di
sessant’anni: putsch nazista», “antisemitismo”, “complotto degli Usa e della
Nato”, eccetera: chi non ci volesse credere dovrebbe leggere le cronache di
allora. Ma ciò che è peggio è il modo, anch’esso identico, in cui — allora e
oggi — questi slogan sono ripetuti in Italia anche da eminenti cattedratici,
eponimi di Concetto Marchesi che si fece beffe di Khrusciov e del noto
archeologo fascista messo da Togliatti a capo dell’Istituto Gramsci nel 1957:
allora era tragedia, oggi è farsa, direbbe Marx.
La questione ucraina, date anche le dimensioni del paese, è ancora più
complessa di quella ungherese del 1956, ma è comunque una battaglia di libertà:
bisogna anche chiarire una volta per tutte che la denuncia dell’imperialismo
russo non è alternativa, ma complementare a quella degli errori, o peggio,
compiuti dall’Occidente. La differenza è che di questi ultimi si poteva allora
e si può oggi discutere liberamente, mentre se si discute della guerra in
Ucraina a Mosca si finisce come Boris Nemtsov, ucciso per strada il 27 febbraio
2015, un altro anniversario da ricordare.
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