È terribile il mare di banalità che gran parte della
stampa italiana dedica al caso greco: dalla condanna per la resistenza alla
modernità di Atene (contro quella ormai incontrollabile e incontrastabile
globalizzazione del potere che deriverebbe dall'inevitabile dominio della
finanza unito al prevalere irresistibile - con la sola minore contraddizione
dell'Isis e degli ayatollah iraniani - dei nuovi diritti tipo matrimoni gay)
alla denuncia della lazzaronaggine mediterranea contrapposta alla laboriosità
luterana, dalla retorica sull'Unione Europea destino ormai inesorabile del
nostro Continente alla sbrigativa messa da parte dell'anticaglia costituita
dalla sovranità popolare con il contorno delle sue istituzioni.
Eppure il mare di banalità, ben in sintonia con il vuoto perfetto
dell'analisi di Matteo Renzi nella sua lunga intervista al Sole 24 ore , non è
obbligatorio: i grandi tedeschi (da Helmut Kohl a Helmut Schmidt, da Juergen
Habermas a Ulrich Beck suonano una musica nettamente distinta da quella
apologetica dell'imperialismo bottegaio di Angela Merkel con accompagnamento di
pifferai italiani), Wolfang Munchau spiega sul Financial Times le ragioni
«economiche» dei senza dubbio estremisti governanti greci, il super liberal New
York Times (pur così strenuo difensore della modernità che si afferma sul suo
modello) non può non rendere omaggio alla difesa dei diritti dei cittadini
d'Atene (che è così simile nell'idealità a quella americana da costringere ogni
nipotino di George Washington a provare nel fondo un senso di ammirazione).
Il punto centrale per capire chi sostituisce un pensiero retorico a uno
critico nell'esame della realtà è considerare la sua perdita del senso storico
dei processi: il che è poi comportamento particolarmente tipico in una nazione
come la nostra che tra condanna del liberalesimo ottocentesco, ripudio del
fascismo, damnatio della Dc e del Psi, rimozione dell'italocomunismo,
liquidazione per via giudiziaria del berlusconismo ha perso interamente il
senso della sua vicenda novecentesca (e più ampiamente «unitaria»).
Ma questa dorata inconsapevolezza non è fenomeno isolato: un certo mito
della fondazione europea - il che è avvenuto anche per ragioni nobili - ha
nascosto come la causa principale degli accordi intercontinentali sia stata la
guerra civile europea, la paura per l'Armata rossa e il super ragionevole
affidarsi a Washington. Finita una stagione che è durata pressappoco dal 1914
al 1989/91 la storia ha, però, ripreso a procedere sui suoi antichi binari
(come ha spiegato bene nel 1993 Samuel P. Huntington nel suo «Conflitto delle
civiltà»): così si è rinnovata la millenaria guerra tra sunniti e sciiti, così
è in corso quella per il controllo della Via della seta, si è ricostituito un
polo baltico che ricorda l'Europa pre Westfalia, e infine si avverte una
tensione della civiltà greco-ortodossa che potrebbe tendere a ricompattarsi
aprendo così lo spazio per quell'egemonia russa sull'area est del Mediterraneo,
che è stata contrastata da Londra per tutto l'Ottocento.
Basta osservare la disperazione inglese (arrivata al punto di
contrapporsi a Washington - cosa che non avveniva dal 1956 con Suez - prima
sulla Siria poi sulla Banca d'investimenti cinesi in Asia) cioè di una nazione
che mantiene consapevolezza di sé, per capire le radici innanzi tutto storiche
delle vicende greche di questi mesi: di fronte a un'Unione che si affida solo a
retorica e tecnocrazia, sono le radici della civiltà (quelle ben individuate da
Huntigton), sia pure mediate dalle semplificazioni paracomunistiche di Syriza,
a riprendere il sopravvento.
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